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Qualcosa sta soffiando nel vento

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Qualcosa sta soffiando nel vento

Un vento nuovo soffia dalla Francia e “the answer my friend is blowing in the wind, the answer is blowing in the wind”. Un vento che ha il profumo della primavera, che può attraversare i confini e contaminare l’Europa. Un vento che sussurra, che tutto può ricominciare là dove tutto sembrava perduto.
Ci avevano raccontata una Francia in lutto, chiusa nel dolore, raccolta in se stessa, rancorosa e assopita. E poi, come per incanto, tutto appare sotto una luce nuova. Improvvisamente scopriamo che una parte dei francesi non sta al posto loro assegnato nella usuale recita: i pochi che comandano, i molti che ubbidiscono. Un variopinto esercito di disertori del ‘vivere civile’ ha cominciato ad organizzarsi e a muoversi e così ha messo in luce insieme alla miserabile arroganza dei pochi, che ci governano, anche la loro malcelata fragilità. Le piazze vuote di pochi mesi prima si sono riempite di un multicolore movimento di persone, di desideri gridati, di piaceri ostentati, di corpi esibiti. Un erotismo collettivo ha preso ben presto il posto del lutto. Lavoratori, studenti medi, universitari, abitanti dei quartieri delle periferie, giovani precari si sono messi in movimento, ognuno con il loro modo di essere, ognuno con le loro risposte. Sempre più risposte, sempre meno richieste “noi non rivendichiamo niente“ hanno cominciato a sussurrare. E in poco tempo si sono ripresi lo spazio pubblico con tutto l’odio contro il potere del denaro e contro chi si arroga il diritto di comandare sulla vita degli altri. Tutto è partito da una nuova legge sui rapporti di lavoro, una legge che governo e imprenditori francesi hanno voluto imporre con la forza, confidando sulla passività e sulla assuefazione dei molti, una legge che precarizza il rapporto di lavoro, che dà sempre più potere ai padroni togliendo diritti e forza ai lavoratori. Questa volta non gli è andata bene. Non è stato così facile come altre volte. Non è stato così semplice come in Italia. Si è sentito un grosso crack e qualcosa si è inesorabilmente spezzato. Forse la legge sul lavoro era solo l’occasione che tutti stavano aspettando. Forse l’intelligenza comune non è più in grado di tollerare la stupidità di una società che condanna al lavoro o alla ricerca del lavoro milioni di uomini, quando è possibile limitare il lavoro ad una miserabile frazione di tempo. “Fin du travail vie magique” si è cominciato a ripetere. Il potere, che aveva usato gli attentati terroristici per tenere a casa le persone, si è trovato improvvisamente a fronteggiare una multiforme occupazione degli spazi e la città si è trasformata. La città anonima e grigia da attraversare per andare al lavoro, consumare e poi tornare al lavoro è diventata la città da vivere, gioire, amarsi, lottare. La città per incontrarsi e per cominciare a decidere insieme e… ribellarsi. La piazza del lutto, dopo gli attentati (Place de la Republique) si è improvvisamente trasformata in una piazza di lotte, e l’ordine pubblico è stato travolto da un caotico disordine ricco dell’odio verso l’ordine delle cose presenti “Tout le monde deteste la police”. La gioia della vita si è contrapposta, per incanto, alla paura della morte. Ora questo tumulto partito dalla Francia può coinvolgere l’intera Europa. Forse surrettiziamente lo sta già facendo. Perché il problema dei poveri, dei lavoratori, dei giovani precari di Francia è lo stesso di tutti i poveri d’Europa. Non è la lotta alla legge in sé che ci interessa, forse la lotta contro la legge è solo un pretesto, forse delle vostre leggi non ci importa poi tanto . Ci interessa che un movimento ribelle si inneschi e dichiari guerra al mondo che non è il nostro. I pochi, che ci governano, hanno costruito il mondo secondo la loro immagine fondata su un’eterna competizione di tutti contro tutti e la paura… paura dell’altro, paura del vicino, paura del diverso. Con loro a godere del privilegio di starne fuori e condurre il gioco. Per questo dobbiamo cominciare a destituire le istituzioni che garantiscono e conservano il mondo così come ci è dato: luoghi di lavoro, le scuole, le prigioni, le città, la polizia. Rendere felice la vita contro chi la vuole sottoporre ad una coazione ripetitiva di lavoro e consumo, rendere comune il mondo contro chi lo vuole privatizzare, contrapporre la gioia della vita alla
paura della morte. Il piacere di una vita in-comune è dietro l’angolo. Scendere nelle piazze riappropriarsi delle periferie e muovere guerra alla città dei ricchi, costruire un modo di stare insieme è il passo necessario che possiamo cominciare a fare subito.

In ogni angolo della metropoli c’è un potenziale ribelle, contro il potere c’è un potenziale amico.

Dobbiamo saperci riconoscere e darci spazio.
Ora che il vento francese si avvicina.
Ora che il nostro tempo riprende a camminare.

Per la ripresa di un movimento antagonista nelle scuole e nelle università
Maggio 2016 – Franti (franti@inventati.org)

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Appunti per una riflessione collettiva su apparati educativi e sistema scolastico [work in progress]

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Appunti per una riflessione collettiva su apparati educativi e sistema scolastico

[work in progress]

«“Il Partito operaio tedesco chiede come base spirituale e morale dello Stato educazione popolare generale ed uguale per tutti per opera dello Stato. Istruzione generale obbligatoria, insegnamento gratuito”.

Educazione popolare uguale per tutti? Che cosa ci si immagina con queste parole? Si crede forse che nella società odierna (e solo di essa si tratta) l’educazione possa essere uguale per tutte le classi?»

Karl Marx, Critica del Programma di Gotha, 1875

Partiamo da un cambiamento importante dell’istruzione scolastica che ci riguarda da vicino: “la buona scuola” (legge 107/2015).

1) La legge 107 è una tappa significativa verso la ridefinizione della scuola pubblica italiana. Non si tratta di un semplice smantellamento della dimensione pubblica in favore del privato, come troppo frettolosamente si sostiene da più parti (parti troppo spesso interessate a difendere “il buon tempo antico”), ma di una sostanziale ristrutturazione in termini neoliberali delle istituzioni educative, nelle quali la dimensione pubblica (statale) continua a svolgere una funzione essenziale.

2) La legge “La buona scuola” adegua la scuola italiana al modello di razionalità funzionale al Capitale nel campo delle istituzioni educative, già funzionante in altri Paesi, e mette in atto indicazioni sulla politica scolastica, che hanno avuto un punto di riferimento importante nel cosiddetto Processo di Bologna del 1999, cioè la costruzione di uno spazio comune e condiviso dell’istruzione di molti paesi europei.

3) “La buona scuola” rappresenta in qualche modo la fine di alcune anomalie – anomalie felici dal punto di vista che è il nostro – che il sistema di istruzione italiano ha avuto, almeno nel lungo periodo che separa gli anni Settanta dall’avvento della cosiddetta “autonomia scolastica”: insegnanti poco propensi a subire trasformazioni dall’alto, alto tasso di conflittualità, pratiche pedagogiche che mantenevano una certa autonomia rispetto allo “spirito mercantile dei tempi”. [Breve inciso sulle polisemie: salta agli occhi l’ambiguità ricercata della definizione, dall’alto, di “autonomia scolastica”, corporativa e decisamente padronale, con i suoi “Dirigenti” come tipici esemplari di “servopadronalità”. Specie di ossimoro e saccheggio culturale e linguistico. Un po’ come è stato per l’uso dello stesso termine, autonomia, per designare movimenti indipendenti e i famigerati sindacati, corporativi e padronali.] In un certo senso “La buona scuola” mette termine ad un’epoca e adegua la scuola a parametri più consoni alle politiche europee: inclusione differenziata nel sistema formativo, attività didattico-educativa piegata alle esigenze del mercato del lavoro, digitalizzazione e automazione del sistema educativo, introduzione generalizzata di sistemi valutativi in grado di fornire misurazioni e valutazioni “oggettive” delle perfomances di studenti e docenti.

4) Tale legge porta a conclusione un processo, iniziato in Italia con la Riforma Berlinguer e con la “scuola dell’autonomia”: creazione della figura del dirigente scolastico e diretta applicazione della logica di mercato, senza più complessi e pudiche velature. L’introduzione dei POF in ogni scuola – forme elementari di marketing che inaugurano una neolingua e mettono in moto comportamenti di tipo aziendalistico – ha l’obiettivo di generare la concorrenza tra istituti e la divisione dei docenti con premi monetari differenziati. Non conta più il lavoro svolto con le classi, perlopiù in collaborazione, non competitivo e comunque libero da vincoli esterni, che viene anzi svalorizzato a fronte d’una premialità offerta all’acquiescenza verso i nuovi “dirigenti” e l’idea stessa di competizione. In questo senso avanza un uso politico del fondo di istituto.

Ciò nonostante, la fase iniziale dell’“autonomia scolastica” ha avuto difficoltà ad attuarsi per la prolungata opposizione di molti lavoratori della scuola.

Non va invece trascurato il fatto che tra i più solerti sostenitori della “scuola dell’autonomia” si trovassero sindacati e partiti di sinistra. Da qui forse l’attuale debolezza nel contrasto a “La buona scuola” da parte di chi in sostanza ne aveva abbracciato ormai la logica di fondo.