Categorie
Documenti/

Dove va Franti ?

Invio il testo dal titolo “Dove va Franti ?”che costituisce un contributo alla discussione all’interno del gruppo Franti. L’auspicio è che questa discussione possa avviare una riflessione sulle forme dello ‘ stare insieme’ e che possa coinvolgere un numero sempre più ampio di compagni a partire da coloro che , in un modo o nell’altro, hanno incrociato il nostro percorso. A questo proposito mi piace segnalare un testo che ho appena iniziato a sfogliare ma che mi pare si ponga sull’onda dei problemi sui quali da tempo ci interroghiamo.

Il testo così si conclude :

E vinceremo, qui e altrove. Vinceremo anche contro noi stessi. Contro ciò che, talvolta, fa di noi non molto di più che dei tristi amministratori dell’esistente. Vinceremo, , disputando a pietrate pezzi di territorio alla polizia , gettando lampi di luce negli occhi appannati della vita. Producendo il nostro cibo e mettendo in ginocchio un governo. Costituendo forze collettive e condividendo un pezzo di mondo con altri esiliati. Moltiplicando le comuni libere, generando le nostre culture e le nostre storie. Gli spazi in cui queste dieci, mille vittorie possono incontrarsi sono rare. Il notav e la zad sono tra questi. E ne ispirano altri. E’ questa la loro portata rivoluzionaria“.

Collettivo “mauvaise troupe”, Contrade. Storie di zad e notav, Tabor

Dove va Franti ?

“Il carattere distruttivo non vede niente di durevole. Ma proprio per questo vede dappertutto delle vie. Ma poiché vede dappertutto delle vie , deve anche dappertutto sgombrare la strada (…) Poichè dappertutto vede vie, egli sta sempre ad un incrocio. Nessun attimo può sapere ciò che il prossimo reca con sé. L’ esistente lui lo manda in rovina non per amore delle rovine, ma per la via che vi passa attraverso”
W. Benjamin

Franti, verso la metà del libro di De Amicis, sparisce dal racconto, non se ne farà più parola , le voci dicono “che non verrà più perché lo metteranno all’ergastolo”. A noi piace pensarlo invece alla ricerca di un’altra comunità possibile. Un po’ come altri personaggi della letteratura. Come quel Rosso Malpelo che, chissà, forse muore nella cava della rena rossa ma forse trova anche lui la strada per un’altra possibilità, un’ altra forma di vita, magari tra gli spettri che popolano i sotterranei della miniera. In questo sta la forza della letteratura, farci immaginare altri percorsi possibili. Per i personaggi che la popolano, Per noi che leggiamo.

Del resto Franti era incompatibile con l’istituzione, con qualsiasi tipo di istituzione e refrattario a qualsiasi disciplina imposta che l’istituzione, che qualsiasi istituzione, non può non presupporre.
Franti era strutturalmente ‘contro il metodo’, per riprendere un ben noto titolo di un libro di Fayerabend, perché la ricerca di ciò che non c’ è, ma desideriamo cercare, presuppone la massima libertà, anche quella di sbagliare, anche quella di tornare indietro, e questa ricerca può essere fatta senza presupposti stabili, senza regole a priori, senza un’ origine che predetermini il fondamento della nostra ricerca.

Un po’ come Franti mi pare debba essere Franti, o almeno così a me piace immaginarlo, alla continua ricerca di un’ altra comunità possibile. Una comunità che si forma attraverso la contaminazione, non uno stato di cose, non un’ istituzione. Una comunità sregolata che vive di attrazione, che si costruisce di volta in volta, senza presupposti, senza statuti, in definitiva senza stato.

Del resto per attrazione si era formato e solo per attrazione può trovare le ragioni della sua esistenza . Qual era stato questo moto di attrazione? Una certa sensibilità comune, un clinamen, una impercettibile curvatura che ci ha fatto incontrare come gli atomi di Lucrezio. Certo la critica radicale all’istituzione scolastica. Da lì eravamo partiti, ma questa critica non poteva non contenere il rifiuto delle istituzioni che governano la nostra vita e non solo quelle del potere costituito, anche quelle alle quali siamo appartenuti , anche a quelle di cui siamo stati compagni di viaggio, o siamo ancora, in qualche modo, compagni di viaggio. L’abbiamo pensato come un polo di transito di esperienze diverse, persino di generazioni diverse sull’onda delle suggestioni francesi “La questione non è di avere 16, 30 o 77 anni. Dobbiamo smettere di credere che la gioventù  è una fase di transizione. Non si è giovani, e poi, in seguito vecchi. Non si è vecchi perché si è stati giovani. La gioventù è l’opposto del lasciarsi andare: è partire  all’assalto del mondo, compreso quando si tratta di rovesciarlo”.
Insomma nelle cose che abbiamo detto, nelle cose che abbiamo scritto ci siamo pensati come una comunità in divenire non come un’organizzazione politica magari in rivalità o in competizione con le altre. Abbiamo scritto “Dobbiamo organizzarci come parte di chi non vuole appartenere, di chi rifiuta di essere lavoratore o cittadino, ma che invece costruisce il proprio essere attraverso la forma comune che lega le nostre diversità“.

Ma come definire questa attrazione? Possiamo chiamarla amicizia. L’amicizia è un sentire comune. Aristotele dice “per l’amico si dovrà con-sentire che egli esiste e questo avviene nel convivere e nell’avere in comune azioni e pensieri. In questo senso si dice che gli uomini convivono e non come il bestiame, che condividono il pascolo” . Gli amici non condividono qualcosa ( una sede, una scadenza, una regola, un nome, un’appartenenza ) ma sono con-divisi dall’esperienza dell’amicizia. Il resto viene dopo, molto dopo. L’amicizia è quel con-vivere che precede ogni divisione, perché ciò che è in gioco è la vita stessa nel suo divenire e non soltanto una parte di essa.

Non venivamo dal nulla, quando ci siamo rimescolati, quando abbiamo giocosamente chiamato Franti quel nostro stare insieme ognuno di noi portava con sé il suo fardello di sconfitte, di esperienze, di passioni dentro il tempo, per alcuni ormai lungo, con quelle radici ben piantate nel Novecento con tutto ciò che di positivo e di negativo ciò voglia ancora dire oggi . Conoscevamo i meccanismi e le forme di aggregazione e di disgregazione delle comunità politiche le abbiamo vissute, talvolta le abbiamo pure studiate e comunque ne abbiamo fatto esperienza. Una preziosa esperienza di cui possiamo fare tesoro.

Cosa è stata una comunità politica l’abbiamo sperimentata nel corso del nostro tempo. Anche il modo di costruire una comunità politica era stato , almeno nelle intenzioni , forse mai del tutto esplicitato, la forma che abbiamo dato alla nostra amicizia .

Ci sono diversi modi di immaginare le forme dell’ aggregazione politica. A me,ora ,vengono in mente due possibili, differenti, probabilmente opposte. Quella istituente che fa dell’esistenza dell’istituzione ( dell’organizzazione politica nel nostro caso) il fine ultimo. Il problema diventa immediatamente la sua conservazione, la sua stabilità, per cui le singolarità che la costituiscono sono intercambiabili, nessuno diventa indispensabile, e l’ aggregazione umana può esistere anche se le singolarità che la compongono cambiano, mutano, spariscono.
In questo modo l’istituzione diventa tutto, i singoli tendono a diventare nulla. E’ dentro questa forma che si costituiscono, il più delle volte, involontariamente, rendite di posizioni, piccoli poteri, velati narcisismi.
Se guardiamo alla miseria dell’ ambiente sovversivo , del nostro ambiente per intenderci, in odio allo stato abbiamo spesso costruito piccoli stati , noi, in odio al potere abbiamo costuito piccoli poteri , in odio alla cultura dominante abbiamo costruito linguaggi anch’ essi di potere ( chi parla una certa lingua ‘dentro’, chi non la parla ‘fuori’, non per esplicita volontà ma per semplice automatismo). Ci siamo inventati leaders e ci siamo fatti scudo di questi, per non vedere, per non pensare, per semplice inerzia , per una servitù volontaria che volevamo combattere ma che poi riemergeva, di volta in volta , sotto altre forme.

Possiamo invece immaginare, provare a costruire una forma, che alcuni amici filosofi chiamano ‘ destituente’ ( ma qui il termine è solo indicativo) dello stare insieme anche nell’agire politico, nella quale le singolarità che compongono una comunità politica determinano di volta in volta il loro stare insieme. Con-vivono, prima ancora di con-dividere cioè fanno dell’agire politico non qualcosa di separato dalla vita stessa e dalla sua trasformazione.
In questa prospettiva anche il problema della fedeltà, della fiducia degli uni nei confronti degli altri
appare sotto un nuovo aspetto. Non è il richiamo all’istituzione ( organizzazione) che garantisce la fedeltà ma viceversa la fedeltà può esistere solo se è un piacere che, di volta in volta, ricerchiamo, che ci rende felici, che rendere amabile lo stare insieme.

Proviamo per un momento a pensare a Franti come una partitura jazzistica nella quale ad un tema di fondo, un tema appena accennato, nondimeno forte, (le ragioni del nostro tendere l’un l’altro , le ragioni della nostra amicizia) ci possono essere continue variazioni . Ecco, io immagino Franti come una continua variazione sul tema e questo fa a meno di metodi, di statuti, di regole. Un Franti che si inoltra lungo un sentiero incerto tra gli spettri che popolano la metropoli, tra la solitudine immensa, tra le rovine del nostro tempo, nell’incertezza della via da percorrere, dove tutto può andare bene ma anche dove tutto può andare male.

A Franti (personaggio) era imputato una cosa davvero scandalosa, forse la più scandalosa di tutte il riso. ‘E quell’infame rise’ . Ci piace pensarlo, fuori dalla sua solitudine immensa, a ridere, finalmente insieme ad altri, delle istituzioni, che negano la nostre inappropriabili forme di vita, le nostre irriducibili differenze. Quel riso che solo può fondare una possibile felicità , pure se questa felicità dura solo l’attimo di un momento.

Fabrizio gennaio 2018